2019 e 2020, due anni di epidemie che hanno stravolto il mercato dei suini.
Anche se la Peste Suina Africana ha attaccato la Cina nel 2018, solo nel giugno 2019 ci si convinse della reale dimensione del problema, infatti, da quel mese il prezzo dei suini da macello iniziò una rampa di salita che aveva poco a che fare con la stagionalità. Ogni settimana si crearono sempre nuovi record storici delle quotazioni, questo fino a novembre quando il prezzo raggiunse un rialzo da inizio anno del 188%.
Storicamente l’area di picchi annuali del 200% è quella oltre la quale i consumi scendono ad una velocità superiore a quella dell’offerta, in pratica oltre questo livello i consumatori diminuiscono drasticamente creando i massimi delle materie prime.
Il forte rialzo dei prezzi fu la conferma che le draconiane previsioni sulla caduta della produzione cinese sarebbero di li a poco divenute realtà.
Il grafico della figura 1 mette ben in evidenza il crollo in capi della produzione cinese, nel 2019 è diminuita del 36% passando da 680.000 a 440.000.
Come dicevo, nel novembre scorso per effetto delle stime sempre più catastrofiche, che vedevano il 2020 sotto i 400 milioni di capi, si raggiunse il prezzo di 6,3 €/Kg peso morto, poi il prezzo ha iniziato a scendere anche grazie ad una sempre maggiore importazione di carne dall’estero.
Dopo la decimazione delle scrofaie, primo tassello della catena del suino, che ha portato aziende come la Wen’s Group a ridurre la produzione in capi da 8 milioni a 3 tra il 2019 e il 2020, il secondo effetto della Peste Suina Africana è stato il forte incremento delle importazioni.
L’import di carne suina congelata è salito da 1 milione di tonnellate del 2018 ai 2 del 2019, le frattaglie invece sono rimaste stabili a 1 milione. A fine maggio 2020 il complesso delle importazioni, congelata e frattaglie, ha raggiunto i 2,2 milioni rispetto ai 3 totali del 2019.
L’aumento della velocità delle importazioni è dovuto alla lenta reazione degli esportatori a causa del collo di bottiglia degli impianti di congelamento e della logistica (container frigo). Mano a mano che le infrastrutture di esportazione si sono adeguate la Cina ha continuato ad aumentare la quota delle importazioni.
I beneficiari del gap tra domanda e offerta di carne suina in Cina sono stati i principali paesi esportatori: Spagna, Germania, Stati Uniti e Brasile. Come potete vedere nella figura 2, un paese come il Brasile è passato dalle 50.000 tonnellate del 2017 alle 220.000 del 2019. Spagna e Germania hanno esportato nel 2019 più di 300.000 tonnellate, quando nei due anni precedenti erano rimaste intorno alle 200.000.
Ma sono gli Stati Uniti i maggiori beneficiari dell’import cinese, dopo un 2018 che vide un calo del 50% causato della guerra dei dazi, il 2019 e soprattutto il 2020 hanno visto un rapido aumento delle esportazioni. Come potete vedere nella figura 3 nei primi 5 mesi del 2020 le esportazioni degli USA verso la Cina sono aumentate del 500%, questo anche grazie ai prezzi più bassi del panorama internazionale.
Quasi 20 milioni di suini prodotti annualmente nei primi 4 paesi esportatori trovano il loro consumo in Cina.
Il terzo effetto della Peste Suina Africana in Cina è stata l’esplosione dei profitti degli allevamenti cinesi che sono sopravvissuti. Le nuove regolamentazioni sulla biosicurezza e gli incentivi statali hanno portato gli allevamenti cinesi ad aumentare la dimensione media, migliaia di piccoli allevamenti sono scomparsi e la loro produzione è stata sostituita o lo sarà da medie e grandi aziende, basti pensare che a fino ad agosto 2020 ben 86 società di allevamento erano quotate in Borsa.
Mano a mano che la produzione era falcidiata il profitto per capo saliva, questo fenomeno ha permesso e sta permettendo un rapido ammortamento dei nuovi impianti o la ristrutturazione di quelli vecchi.
Come potete vedere nella figura 4, tratta da una pubblicazione di China JCI, nel gennaio scorso si è toccato il massimo storico dell’utile per capo, ben 2814 renminbi, che al cambio di allora corrispondevano a 370 €. Un utile monstre che, seppur un po’ ridotto, è proseguito nei mesi successivi, basti pensare che il profitto degli 86 allevamenti quotati in borsa ha raggiunto nei primi 8 mesi del 2020 i 4,16 mld di €, per dare un ordine di grandezza il doppio del fatturato generato dagli allevamenti italiani della D.O.P.
La dimensione dei margini del settore ha attirato nuovi operatori, allettati dalla possibile speculazione che potrebbe ampliare ulteriormente la bolla. Come potete vedere dalla figura 5 (fonte MARA), dopo una caduta delle scrofe (colonna blu) dai 35 milioni di gennaio 2019 ai 18 dell’ottobre 2019, le scrofaie hanno iniziato a riempirsi, a maggio erano già a 24 milioni. I suini da macello generati da questo incremento stanno arrivando sul mercato nel momento in cui sto scrivendo, questo aumento dell’offerta sta già spingendo al ribasso i prezzi. Molto probabilmente questo comporterà una riduzione dei margini e nel medio lungo termine uno stop alla crescita delle importazioni.
Se la Peste Suina Africana ha avuto effetti rialzisti sui prezzi cinesi, il COVID-19 ha spinto nella direzione contraria i prezzi statunitensi. La figura 6 evidenzia questo andamento contrapposto, i prezzi presi in considerazione sono la media annuale €/kg peso morto da settembre ad agosto. I prezzi cinesi settembre 2019 – agosto 2020 sono stati di 5,5 € al kg mentre quelli USA dello stesso periodo hanno raggiunto 0,87 € al kg.
Andiamo ora a vedere cosa è successo negli Stati Uniti. Dal 2015 al 2019, come potete vedere nella figura 7, la produzione statunitense è sempre aumentata, passando da 121 milioni a 140 milioni. Per la prima volta in luglio le stime dell’USDA hanno rivisto al ribasso la produzione per il 2020, se fino ad aprile era vista veleggiare intorno ai 142 milioni, in quest’ultima stima è stata ridotta a 139 milioni.
L’effetto dell’ingresso del COVID-19 è arrivato comunque dopo una continua discesa dei prezzi medi annuali, come evidenziato nella precedente figura 6. L’epidemia ha colpito pesantemente l’anello centrale della filiera dei suini statunitense, i macelli. Come potete vedere nella figura 8 (tratta dal report USDA), nei mesi di maggio e giugno queste strutture sono state sconvolte dalle chiusure totali di alcuni grandi macelli, di conseguenza in maggio si è raggiunto un picco al ribasso delle macellazioni, rispetto alla media dei mesi precedenti, di quasi il 50% mentre in giugno del 30%. La mancata macellazione ha lasciato i suini maturi ad ingrassare nelle stalle con un doppio effetto negativo: mancanza di liquidità derivante dalla non fatturazione e costi maggiori di alimentazione non ripagati dal valore di mercato. Il prezzo dei suini ha continuato a scendere fino al minimo ventennale dei primi di luglio quando toccò 0,54 €/kg.
Gli Stati Uniti nel 2019 contavano poco più di 60.000 produttori, un numero importante che nasconde però una forte concentrazione, infatti, i 2/3 dei 140 milioni di capi allevati sono in capo a solo 40 società. La restante parte è frazionata nelle rimanenti aziende, l’USDA ha individuato la dimensione più comune di queste:
- le aziende a ciclo chiuso allevano 150 scrofe e producono circa 3.500 suini l’anno;
- le aziende a ciclo aperto (gli ingrassatori) producono circa 7.500 capi.
Ogni anno il Ministero dell’Agricoltura stima la redditività di queste due tipologie di aziende, il risultato finale è espresso in $ per 100 libre (45,3 kg). Come potete vedere nella figura 9, gli ingrassatori negli ultimi 5 anni hanno chiuso mediamente in utile (area verde), certamente il trend non è stato positivo, infatti, il profitto è sceso dai 9 $ del 2015 ai 1,6 $ del 2019. La condizione degli ingrassatori è stata comunque più favorevole rispetto a quella degli allevatori a ciclo chiuso, infatti, questi negli ultimi 5 anni non hanno visto in media l’utile.
Se per questi allevatori la situazione non è favorevole da ben un quinquennio, come è possibile che la produzione continui ad aumentare?
Per dare una risposta dobbiamo tenere presente che il reddito preso in considerazione dall’USDA è al netto degli ammortamenti degli impianti e di un costo figurativo dell’uso dei terreni. Se all’utile aggiungiamo questi ammortamenti otteniamo il cash flow aziendale, come potete vedere nella figura 10 questo è stato discreto per gli ingrassatori (area verde), limitato ma pur sempre positivo per gli allevatori a ciclo chiuso (area blu). Certamente alcuni ingrassatori hanno avuto la forza di allargare la loro base produttiva (si tratta pur sempre di una media) mentre i piccoli allevatori hanno continuato a sopravvivere. In ogni caso la maggior parte dell’incremento produttivo USA è stato sostenuto dalle grandi aziende.
Con l’arrivo del COVID-19 le aziende più deboli degli allevatori a ciclo chiuso e degli ingrassatori avrebbero chiuso, in aiuto sono però sono arrivati una parte dei 16 mld di $ di sussidi che Trump ha destinato in aprile all’agricoltura.
Molto probabilmente la mancata chiusura dei piccoli allevamenti e la facilità di finanziamento conseguente al COVID potrebbe, nei prossimi mesi, permettere un ritorno alla crescita del numero dei capi allevati.
Nei mesi di luglio e agosto i prezzi statunitensi hanno veleggiato tra 0,5 e 0,7 €/kg, a metà settembre hanno già raggiunto 1€, questo rapido incremento è frutto ancora degli effetti di un’epidemia, ancora della Peste Suina Africana. Se il trend rialzista dovesse continuare, come la curva dei futures attualmente stima, è possibile che gli Stati Uniti vedano una ripresa degli investimenti in nuove stalle negando così le ultime stime dell’USDA. Già ora, come potete vedere nella precedente figura 8 (linea rossa), le macellazioni sono superiori a quelle dello scorso anno (linea azzurra).
Il 10 settembre il Ministero dell’Agricoltura tedesco ha confermato che la PSA è stata riscontrata sul territorio Federale in una carcassa di cinghiale. Questa notizia ha immediatamente bloccato le attività di esportazione in Cina e in altri paesi asiatici. Il giorno successivo il mercato dei suini tedesco ha rettificato il prezzo settimanale di ritiro di 20 centesimi, portandolo a 1,27.
L’ingresso della PSA in Germania arriva dopo una contrazione della sua produzione suinicola, dal picco di 59 milioni del 2016 ai 55 del 2019. Il COVID-19 ha portato anche qui ad una chiusura di alcuni macelli tra giugno e luglio e, come potete vedere nella figura 11, il censimento settimanale dei maggiori macelli mostrava già una contrazione nei primi mesi del 2020 (linea rossa) ma questa si è accentuata nel periodo COVID-19 e sta ancora continuando, anche se su livelli più contenuti.
Quali effetti potrà avere questa rivelazione sul primo produttore di suini europeo e sul mercato in generale?
Se, almeno per il momento, il mercato cinese è precluso dovrebbero rimanere aperti gli altri mercati nazionali europei, tuttavia, solo gli operatori che non hanno rapporti con l’export saranno interessati ad acquistare le circa 700.000 tonnellate annue che la Germania spedisce nei paesi ora chiusi per embargo sanitario.
Il prezzo del mercato tedesco, fino alla soluzione di questo problema, potrebbe trovare un punto di equilibrio pari al prezzo medio dei mercati di sbocco europei meno i costi di trasporto, stimabili guarda caso nei 20 centesimi della riduzione dell’11 settembre.
La soluzione che tenteranno le autorità tedesche sarà quella di regionalizzare la PSA, come del resto è già accaduto per altre situazioni simili. Se questa strategia dovesse avere successo il blocco delle esportazioni potrebbe rientrare con un ritorno alla situazione precedente.
In caso contrario l’embargo cinese, e sicuramente degli altri mercati asiatici, lascerà la quota di export tedesco a disposizione dei principali competitor: Spagna, Stati Uniti e Brasile. Per quanto riguarda il paese iberico, già da settembre 2019 aveva iniziato ad avvantaggiarsi nei confronti della Germania sul mercato cinese. Come potete vedere nella figura 12, nel mese luglio la Spagna ha quasi doppiato le esportazioni tedesche, 110.000 vs. 60.000. In questo caso la chiusura per COVID-19 dell’import cinese nei confronti di diversi macelli tedeschi ha anticipato quello che sarebbe successo in settembre per la PSA.
Le esportazioni intra europee di Spagna, Olanda e Danimarca potranno essere dirottate sul mercato cinese, tuttavia, questo processo potrebbe trovare un limite nella capacità di congelamento, infatti, una volta saturate le attuali strutture sarà necessario attendere una loro espansione, dai 4 ai 6 mesi per nuovi fabbricati e impianti.
Un prolungamento dell’embargo della carne tedesca ed eventuali ritardi nell’adeguamento della logistica potrebbe lasciare l’eccesso di offerta sul mercato europeo con effetti negativi sui prezzi dei tagli meno qualificati.
I produttori europei, nei prossimi mesi e nel 2021, dovranno affrontare i seguenti ostacoli:
- maggior offerta di carne nel mercato interno per il blocco dell’export di alcuni paesi
- ridotta crescita del mercato import cinese per maggior produzione locale
- maggior competizione per l’export dei due principali competitor Brasile e Stati Uniti che negli ultimi mesi hanno visto le loro valute perdere terreno nei confronti dell’euro.
Gli allevatori affronteranno questi problemi con una produzione di suini stimata a 263,5 milioni per il 2020 e a 264,3 per il 2021, con un export che dovrebbe scendere dai 4 milioni del 2020 (pari a 42 mln di capi) ai 3.950 del 2021 (fonte USDA settembre 20) e con consumi europei che dovrebbero attestarsi per il 4° anno consecutivo intorno ai 20 milioni di tonnellate (220 milioni di capi).
Come le pandemie del passato anche la PSA e il COVID-19 ci hanno chiaramente dimostrato che, in poco tempo, quello che poteva sembrare una sciagura si può successivamente rivelare un’opportunità, con un’unica condizione: essere sopravvissuti per raccoglierla.