Alla fine di aprile di ogni anno il Ministero dell’Agricoltura degli Stati Uniti, USDA, rilascia le stime sui costi e la redditività degli allevamenti suini nazionali. Per il 2018 è stimata una produzione di 133 milioni di suini magri (110 kg), come potete vedere nella figura 1 nel 2002 la produzione fu di 101 milioni, quindi in 17 anni si è sviluppato un incremento di 32 milioni, +31,6% pari ad un incremento annuo medio di quasi il 2%, la crescita della popolazione umana statunitense del periodo è aumentata invece alla media dello 0,8%. Per meglio inquadrare l’aggressività di questo trend basta confrontarlo con la situazione europea, nello stesso periodo la sua produzione è passata dai 260 milioni del 2002 ai 271 milioni stimati per quest’anno, + 11 milioni.
Il surplus produttivo statunitense si è così indirizzato in larga parte all’export, infatti, nello stesso periodo le spedizioni di carne suina sono aumentate dalle 731.000 tonnellate del 2002 ai 2,6 milioni previsti per il 2018, un incremento di 1,9 milioni di tons pari a circa 21 milioni di suini. La dipendenza nei confronti dell’export del settore suinicolo USA è la più alta del mondo, per questo il Presidente Trump ha già previsto un supporto finanziario per il settore colpito dai contro dazi impost dalla Cina.
La produzione suinicola statunitense è concentrata in due aree, come potete vedere nella cartina della figura 2, la prima area è quella a ovest dei Grandi Laghi e coinvolge principalmente l’Iowa e il Minnesota, che producono rispettivamente il 26% e l’11% dei suini USA, la seconda area è quella della Virginia, sulla costa atlantica, che copre il 15% della produzione. Tutte queste aree sono caratterizzate da una struttura rurale costituita da piccoli proprietari terrieri, con appezzamenti medi di circa 40 ettari.
Entrando nella disamina dei dati iniziamo da quelli del ciclo chiuso, la vendita di suini a peso morto nel 2017 ha reso circa 1,0671 € al kg (fig.3). Come vedremo questo prezzo è stato inferiore rispetto a quello degli ingrassatori in quanto la totalità degli allevatori a ciclo chiuso si è rivolta al mercato in modo indipendente. Alcune di queste strutture hanno poi venduto anche suinetti nei vari pesi, come potete vedere la loro incidenza è scarsa in quanto la maggior parte del mercato dei suinetti è in mano a strutture di dimensioni più grandi rispetto a quelle del campione. In pratica, ogni kg di suino a peso morto o vivo, in caso di suinetti, ha reso 1,1864 euro al kg.
L’USDA divide il gruppo dei costi tra costi operativi (diretti) e indiretti, come potete vedere nella figura 4 i primi ammontano a circa 0,7967 € al kg, pari al 67% circa del fatturato. Questi costi sono direttamente collegati alla produzione, in caso di una sua diminuzione anche questi si ridurrebbero proporzionalmente. La somma di questi costi, per ogni capo allevato, dovrà essere finanziata per almeno 6 mesi, dalla nascita alla vendita.
Tra i vari costi il più interessante è quello del mangime, composto da quello acquistato all’esterno e quello autoprodotto su terreni propri, come potete vedere nella figura 4 l’ammontare di questo costo è di 0,6333 €/kg, pari al 53,4% del venduto. Questa percentuale è sensibilmente più bassa del costo medio italiano che è pari a una media del 65%. Le ragioni di questa convenienza sono molteplici ma la più importante è la logistica, questa è particolarmente favorevole in quanto le principali aree di produzione suinicola sono anche quelle ad elevata produzione di mais e soia, quindi i costi di trasporto sono molto ridotti. Anche la farina di soia gode di una logistica positiva in quanto numerose industrie di macinazione sono insediate nelle aree ad alta produzione suinicola.
La logistica, invece, ha effetti negativi sulla maggior parte del mercato europeo e italiano, la componente d’importazione è significativa nel caso del mais, circa 15 milioni di tons importate, mentre per la soia e la farina questa componente è addirittura preponderante.
Per l’allevatore italiano il mais, rispetto ai mercati di esportazione extra europei, incorpora circa 50 € di logistica mentre per la farina siamo oltre i 75 €.
Gli altri costi diretti li lascio alla vostra disamina per un confronto con quelli italiani.
Veniamo ora ai costi indiretti, si tratta dei costi che non sono direttamente correlati al variare della produzione oppure il loro incremento o decremento avviene con ampi scalini, ad esempio il costo dei dipendenti esterni che avviene solo al superamento di un notevole numero di suini prodotti.
L’USDA somma anche costi figurativi, cioè costi che non necessariamente vedono un esborso finanziario immediato, tra questi quello delle ore spese dall’imprenditore. Nell’azienda media presa in considerazione è stimato un costo di 0,0956 €/kg, pari all’8% del venduto, in pratica 8,6 € a capo per un totale di 27.180 € annui (fig.5). Questo ammontare potrà essere prelevato o meno in funzione del risultato economico e delle riserve disponibili all’imprenditore.
Altro costo figurativo è quello dell’affitto dei terreni dell’impresa, l’USDA stima a questo scopo una rendita del 4% del valore di mercato, nel nostro caso ammonta a 0,0014 € pari a circa 400€, si tratta dei terreni direttamente occupati dalle stalle, non quelli destinati alla coltivazione.
Gli ammortamenti, pur non essendo un costo figurativo, non sono correlati ad un immediato esborso finanziario, inoltre, possono essere rimandati parzialmente o totalmente agli esercizi successivi in caso di perdita, nel nostro caso ammontano a 0,2640 €/kg, il 22% del venduto pari a circa 75.000 €, sono la voce più importante dei costi indiretti.
In totale i costi che non producono un impatto immediato sulla finanza aziendale, nel caso medio oggetto di stima, ammontano a circa 102.500 €.
Il risultato economico di quest’azienda tipo è, come potete vedere nella figura 6, negativo per 0,0929 € per ogni kg venduto, pari a circa 26.400 €. Questo risultato, sicuramente insoddisfacente, è un risultato medio, molto probabilmente una parte del campione, quella più efficiente e con maggiori produzioni o terreni disponibili, avrà chiuso l’anno in positivo, al contrario quella inefficiente avrà perso in maniera significativa. In ogni caso pochissime aziende dovrebbero aver avuto crisi finanziarie in quanto i costi figurativi e gli ammortamenti hanno, nella maggior parte dei casi, coperto finanziariamente le perdite.
Nella figura 7 vi propongo lo storico del risultato economico delle aziende a ciclo chiuso degli ultimi 20 anni, le aree rosa sono i periodi in perdita, quelle di verde in utile. Come potete vedere questo tipo di aziende ha visto 14 anni di perdita e 6 di utile. In ogni caso gli anni peggiori, come 1998, 1999, 2002 e 2008, hanno visto perdite comunque inferiori alla somma dei costi figurativi e agli ammortamenti.
Veniamo ora alle aziende d’ingrasso, queste hanno venduto in media 7.613 capi nel 2017. L’80% delle aziende del campione dichiarava di essere sotto contratto mentre il restante 20% operava in modo indipendente. Nella figura 8 potete vedere gli effetti di questo modo diverso di trattare i prezzi rispetto agli allevamenti a ciclo chiuso, ricordo totalmente indipendenti, il prezzo di vendita degli ingrassatori è stato in media 6,7 centesimi superiore rispetto a quello degli allevamenti a ciclo chiuso. Il totale dei ricavi, comprensivi del letame venduto, ha così raggiunto 1,2810 € al kg venduto.
I costi operativi (diretti) dell’ingrasso sono assorbiti da due voci principali: il costo del mangime e quello di acquisizione dei suinetti. Nella figura 9 potete notare come anche qui il costo più importante è quello del mangime, per questi allevatori ammonta al 43,4% del venduto, ben al di sotto del 50% medio di quello italiano. Anche qui valgono i ragionamenti fatti in precedenza sui costi della logicistica e della differente situazione dei mercati. Il secondo costo più importante è quello dell’acquisizione dei suini, anche negli Stati Uniti ci sono ingrassatori che si occupano dello svezzamento e altri che intervengono successivamente, quest’ultimi sono una nutrita maggioranza. Il costo dei suinetti nel loro complesso (7 kg + 30 kg) incide per un 39%, per un costo medio a capo di 44,8 €.
Per gli altri costi diretti non mi esprimo in quanto non sono un esperto in gestione dell’allevamento, lascio a voi il confronto con quelli italiani.
Venendo ai costi indiretti (fig.10), anche qui, come per il ciclo chiuso, troviamo alcuni costi figurativi come quelli del lavoro dell’imprenditore e quelli degli affitti figurativi, nel primo caso la stima ammonta a 21.000 €, nel secondo a circa 400 €.
Altra voce che non è collegata ad un immediato esborso è quella degli ammortamenti, in questo caso si tratta di un ritorno degli investimenti effettuati in precedenza. Nell’azienda media, che esce da questa analisi, questo costo è il maggiore di quelli indiretti ed ammonta a 100.500 €.
Il totale dei costi che non producono un impatto immediato sulla finanza aziendale è di 121.900 €.
Il risultato economico di un allevamento medio per l’ingrasso è, come potete vedere nella figura 11, negativo per 0,0972 € per ogni kg venduto, pari a circa 68.000 €. Questo risultato, sicuramente insoddisfacente, è un risultato medio, molto probabilmente una parte del campione, quella più efficiente con maggiori produzioni o terreni disponibili, avrà chiuso l’anno in positivo, al contrario, quella inefficiente avrà pagato questa condizione con una maggiore perdita. In ogni caso pochissime dovrebbero aver avuto crisi finanziarie in quanto i costi figurativi e gli ammortamenti hanno sicuramente coperto le perdite.
Come per il ciclo chiuso vi propongo (fig.12) la serie storica della redditività degli allevamenti di suini da ingrasso, come potete vedere qui la situazione è stata negli ultimi 20 anni migliore rispetto alle aziende a ciclo chiuso, nove anni su 20 hanno chiuso in profitto. Negli anni negativi le perdite non hanno superato la somma dei costi figurativi e degli ammortamenti, questo ha permesso agli allevamenti del campione di non avere in media problemi finanziari. Naturalmente, come in tutte le medie, ci sono casi che si trovano ad un livello inferiore, questi avranno avuto problemi finanziari con possibile loro chiusura.
Come abbiamo visto negli ultimi 20 anni gli allevamenti a ciclo chiuso di piccole dimensioni hanno avuto più problemi di redditività rispetto a quelli d’ingrasso. Le recenti problematiche di export dovute ai dazi cinesi potrebbero creare non pochi problemi al settore nel suo complesso, soprattutto dopo 3 anni di perdite per il ciclo chiuso e 4 per l’ingrasso. Questa situazione, anche se mitigata dai sussidi promessi dal Presidente Trump, potrebbe portare ad una frenata al trend di aumento delle stalle iniziato tra il 2013 e il 2014, ultimi anni di redditività del settore.